La fine dei Ghiacciai
Marco Vinci / 12 agosto 2021 / CriosferaL’inesorabile innalzamento delle temperature degli ultimi anni ha progressivamente destabilizzato gli equilibri ambientali che regolano il nostro Pianeta. Un processo non più lento e progressivo, ma incontrollato ed in taluni casi irreversibile. L’era moderna ha visto morire ghiacciai per mano dell’uomo, ha assistito a progressivi mutamenti climatici con conseguenze di tropicalizzazione dell’area mediterranea, assiste quotidianamente al peggioramento delle condizioni climatiche di intere regioni, dove la fauna ed i popoli sono costretti a migrazioni ed esodi, mentre la flora si trasforma inesorabilmente. In questo anno si sono raggiunte condizioni eccezionali di scioglimento dei ghiacciai groenlandesi che hanno raggiunto la cifra record di undicimila miliardi di tonnellate di ghiaccio fuso in un sol giorno, numeri da capogiro che devono far riflettere.
L’opinione pubblica è divisa sull’argomento tra chi sostiene che il fenomeno sia del tutto naturale e chi invece sostiene che la mano dell’uomo sia responsabile di quanto accade.
Il 2019 è stato l’anno dell’estinzione di ghiacciai, come il caso dell’Okjökull in Islanda o del Pizol in Svizzera, delle centinaia di incendi nella non più fredda Siberia e del disgelo dello strato superficiale di terreno, notoriamente chiamato permafrost, in Alaska. Un anno di record negativi, eppure ancora si discute sulle cause e sui rimedi, senza rendersi conto che il tempo per prendere decisioni è decisamente terminato. Il ghiaccio scompare a ritmi forsennati e mentre questo accade antiche rivalità tra chi si contende il controllo delle risorse e delle rotte artiche si acuiscono aprendo nuovi sconcertanti scenari di guerre economiche. Gli studiosi affermano che entro la metà del secolo l’Artico si presenterà del tutto diverso. Le estati artiche sempre più miti saranno in grado di sciogliere del tutto la banchisa rendendo le rotte polari navigabili. Il passaggio a Nord Ovest che dalla Baia di Baffin, a sud ovest della Groenlandia, lambendo l’isola Vittoria nel nord del Canada, conduce nel Mare di Beaufort nel nord dell’Alaska, tanto ricercato da divenire un sogno per Giovanni Caboto nel 1497, per James Cook fino all’ardita spedizione del 1845 di Sir John Franklin, a breve potrebbe essere concreta realtà.
Nel settembre del 2018 grazie al minimo storico di estensione della calotta artica, centinaia di imbarcazioni commerciali hanno solcato i freddi mari del nord in cerca di nuove rotte, come il caso della nave container danese Venta Maersk, che in sole due settimane con l’ausilio di una rompighiaccio russa, ha completato la rotta marina del nord dallo Stretto di Bering al Mar del Nord norvegese. E mentre quella parte dell’opinione pubblica che si è schierata a difesa del Pianeta lamenta il progressivo peggioramento delle condizioni climatiche, l’altra, meno preoccupata per lo stato di salute della Terra, strizza l’occhio alle crescenti opportunità economiche collegate proprio alle nuove condizioni ambientali dell’Artico. In una visione più globale il ritiro progressivo delle fronti glaciali, la diminuzione dell’estensione delle calotte polari, si associa ad un’altra minaccia per il nostro ecosistema, la fusione del permafrost, che è in grado di velocizzare l’emissione in atmosfera di gas serra che contribuiscono così ad accelerare i cambiamenti climatici.
In Alaska, così come in Russia, l’innalzamento delle temperature sta generando disastri ambientali inaspettati. Immensi crateri di collasso nel terreno dovuti alla fusione del permafrost, come il caso del cratere di Batagaika nella Siberia orientale, oltre che stravolgere l’assetto del territorio contribuendo a renderlo più fragile ed instabile, rilasciano in atmosfera tonnellate di carbonio in forma di metano o anidride carbonica, innescando una velocizzazione del riscaldamento globale. Recenti studi e ricerche scientifiche sostengono che in alcune regioni dell’Artico la velocità di fusione del permafrost, che è stato in passato dell’ordine di qualche centimetro all’anno, è arrivata a ben tre metri al giorno. Una condizione questa del tutto incontrollabile che sta generando l’ampliamento areale di ambienti umidi, i quali contribuiscono al processo di surriscaldamento globale.
Negli ambienti artici si assiste inesorabilmente ad un profondo mutamento del paesaggio dovuto proprio allo scioglimento del permafrost che, destabilizzando gli equilibri del terreno, genera franamenti, collassi e ristagni superficiali. Si aprono così nuovi scenari in cui la flora progredisce dalle forme più rade e arbustive a quelle più estese e d’alto fusto, richiamando di conseguenza fauna erbivora che progressivamente conquista le nuove nicchie ecologiche che si vanno man mano formando, generando vere e proprie migrazioni di sopravvivenza.
Nell’ultimo rapporto del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC), gli scienziati ed esperti delle Nazioni Unite che studiano il riscaldamento globale, emerge come il mutamento climatico e la conseguente trasformazione degli ambienti, destabilizza fortemente gli ecosistemi sui quali regola la sua esistenza la fauna artica. La diminuzione progressiva dell’estensione della banchisa costringe orsi polari a disperati avvicinamenti ai centri abitati in cerca di cibo, le migrazioni delle specie marine devono prendere nuove rotte ed il progressivo surriscaldamento dell’acqua nell’area artica e subartica genera la fioritura di specie algali che inesorabilmente portano ad una diminuzione delle popolazioni ittiche con pesanti ricadute sugli equilibri dell’ecosistema. Con il protrarsi del fenomeno di stravolgimento climatico si assisterà ad un progressivo aumento della popolazione globale di animali nei territori artici, frutto della migrazione di quelle specie di ambienti più temperati che troveranno nuovi habitat idonei alla loro sopravvivenza sempre più a nord a discapito delle specie che popolano l'alto Artide, le regioni più vicine al Polo, con analoga tendenza per le regioni antartiche. Dal 1970 si è registrato un calo complessivo del numero di vertebrati pari al 26% nelle regioni artiche. Il declino di erbivori come la lepre artica, dovuto al cambiamento della vegetazione della tundra e alla fluttuazione dei ritmi stagionali, l’irreversibile mutamento delle migrazioni dei trichechi o l’incredibile ritrovamento di tracce di mercurio, un metallo altamente dannoso, anche nei corpi di predatori come orsi polari o narvali, sono segni tangibili di una lenta e profonda crisi ambientale per tutti gli ecosistemi delle regioni polari.
A fare le spese di questo complesso contesto ambientale è anche e soprattutto il responsabile primo, l’Uomo. Nell’Artico canadese gli Inuit devono fare i conti con il progressivo assottigliamento del ghiaccio che rende sempre più difficile muoversi su percorsi di caccia che seguono le rotte migratorie degli animali artici. In circa 30 anni il ghiaccio antico, tecnicamente definito pluriennale, si è ridotto del 95% mettendo in seria crisi l’ecosistema marino artico. Nella stessa maniera gli abitanti dei villaggi Inupiaq lungo il North Slope dell’Alaska, dediti alla caccia della balena artica, si trovano ad affrontare un nuovo inaspettato problema di sopravvivenza. La carne di balena, per poter soddisfare il fabbisogno alimentare delle comunità, deve essere ben conservata per lunghi periodi. L’esperienza ha portato gli Inupiaq a conservare le preziose scorte in ghiacciaie ricavate scavando all’interno del permafrost. Le mutate condizioni climatiche rendono, però, inutilizzabili queste ghiacciaie che spesso si allagano proprio per effetto della fusione del terreno ghiacciato.
Con un quadro così complesso e con direttive spesso contrastanti c’è da aspettarsi grandi cambiamenti per il futuro del nostro Pianeta, ma saranno poi così compatibili con la nostra sopravvivenza?
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